giovedì 18 settembre 2025

In onore e memoria di Vincenzo Chieppa magistrato antifascista


GIUSTIZIA INSIEME


Era segretario generale dell’AGMI (Associazione generale magistrati italiani) che fu sciolta dal regime fascista nel 1925. I suoi dirigenti rifiutarono di trasformarla in un sindacato schierato a favore del regime e, in esito ad un’assemblea generale tenutasi il 21 dicembre del 1925, deliberarono essi stessi, autonomamente, di scioglierla.

Il 15 gennaio 1926 uscì l’ultimo numero della rivista La Magistratura e vi fu pubblicato un editoriale senza firma ma unanimemente attribuito a Chieppa.

Era titolato “L’idea che non muore” e vi si leggeva una frase così: “Forse con un po’ più di comprensione – come eufemisticamente suol dirsi – non ci sarebbe stato impossibile organizzarsi una piccola vita senza gravi dilemmi e senza rischi, una piccola vita soffusa di tepide aurette, al sicuro dalle intemperie e protetta dalla nobiltà di qualche satrapia… La mezzafede non è il nostro forte: la ‘vita a comodo’ è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire”.

Alla fine di quello stesso anno, Chieppa e vari dirigenti dell’AGMI furono destituiti dalla magistratura con questa motivazione "Alla fine di quello stesso anno, Chieppa e vari dirigenti dell’AGMI furono destituiti dalla magistratura con questa motivazione “l’associazione assunse un indirizzo antistatale…”, i suoi dirigenti “avversarono [il governo] criticandone astiosamente gli atti…”; occorreva quindi dispensarli dal servizio perché “non offrono garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri di ufficio e si sono posti in condizioni di incompatibilità con le direttive politiche del governo”.

Caduto il regime, Vincenzo Chieppa fu riammesso in magistratura e fece a tempo a diventarne prima segretario generale e poi presidente negli anni Cinquanta dello scorso secolo.

https://terzultimafermata.blog/2025/09/18/perche-il-condominio-lo-facciamo-amministrare-da-chi-ne-capisce-e-il-consiglio-superiore-della-magistratura-da-chi-capita-le-spiazzanti-dichiarazioni-del-segretario-generale-dell/


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Nato ad Andria il 22 luglio 1890, entrava in magistratura nel 1914 e svolgeva la sua carriera quasi interamente a Roma; veniva dispensato dal servizio il 31 dicembre 1926 in base all’art. 1 della legge 24 dicembre 1925 n. 2300 in quanto antifascista; a seguito della caduta del regime, ovvero nell’estate del 1944, chiedeva e otteneva la reintegrazione in magistratura in forza del sopravvenuto d. l. luog. 24 agosto 1944 n. 183, Riassunzione in servizio di magistrati dell’ordine giudiziario dispensati per motivi politici o razziali; veniva così assegnato in soprannumero presso la Corte di Cassazione e collocato definitivamente a riposo il 12 luglio del 1960.[31]


Nell’estate del 1960 Ministro della Giustizia era Guido Gonella; egli scriveva nella lettera di congedo dalla magistratura di Vincenzo Chieppa: “fin dal 1924, allorché fu chiamato a far parte del Consiglio Centrale dell’Associazione Generale fra i Magistrati Italiani, Ella partecipò attivamente alla vita dell’Associazione, svolgendo quell’attività altamente meritoria che solo nel 1944, allorché fu riammesso in servizio, da cui era stato dispensato per motivi politici nel 1926, poté riprendere con immutabile fervore; ella ha manifestato a chiunque ed in ogni circostanza la sua tenace avversione al Regime”[32].


4.1. La storia di Vincenzo Chieppa è fortemente intrecciata con quella dell’associazionismo giudiziario.[33]


Ricordo che la prima Associazione generale fra i Magistrati d’Italia (AGMI) fu fondata a Milano il 13 giugno 1909[34].

Nel 1911 si tenne a Roma il primo “Congresso Nazionale della Magistratura” mentre già dal settembre del 1909 l’associazione iniziava a pubblicare e a diffondere le proprie idee attraverso un proprio organo di stampa: “La magistratura”.

Con l’affermarsi del fascismo l’AGMI si vide costretta ad un nuovo corso, che fu interpretato da Vincenzo Chieppa, eletto segretario generale della stessa nel 1923, carica che mantenne fino al momento dello scioglimento della associazione avvenuta il 21 dicembre 1925.


Ha scritto in proposito di lui lo studioso F. Venturini: “La gestione di Chieppa, condotta con coraggio e coerenza, si caratterizzò per un ritorno alla difesa dei valori classici dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario dalle contese politiche. Riemerse, in quel momento, una visione tecnica del giudice, senza cedimenti né a prospettive di mediazione degli interessi sociali né a ipotesi di utilizzazione dell’organizzazione di categoria per trasformare il patrimonio culturale e il sistema di valori della magistratura”[35].


A seguito del rifiuto dei dirigenti dell'AGMI di trasformare l'associazione in sindacato fascista, l'assemblea generale tenuta il 21 dicembre 1925 deliberava lo scioglimento dell'AGMI. L'ultimo numero de "La magistratura", datato 15 gennaio 1926, pubblicava un editoriale non firmato dal titolo "L'idea che non muore", da tutti attribuito a Vincenzo Chieppa: "Forse con un po' più di comprensione - come eufemisticamente suol dirsi - non ci sarebbe stato impossibile organizzarsi una piccola vita senza gravi dilemmi e senza rischi, una piccola vita soffusa di tepide aurette, al sicuro dalle intemperie e protetta dalla nobiltà di qualche satrapia... La mezzafede non è il nostro forte: la 'vita a comodo' è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire"[36].


4.2. Fin qui si tratta di storia nota, riportata in ogni scritto dedicato all’associazionismo giudiziario di quegli anni.


Mi sia però consentito ricordare una vicenda ulteriore, in quanto, in verità, la storia del giornale "La magistratura" non terminava con quel numero del 15 gennaio 1926, visto che, seppur già sciolta l’AGMI, Vincenzo Chieppa, insieme ad un certo numero di altri magistrati, apriva, in tempo immediatamente successivo, un nuovo giornale, che prendeva il nome di “La giustizia italiana”[37].


L’esistenza di questo giornale è menzionata anche nel regio decreto ministeriale del 16 dicembre 1926, con il quale Vincenzo Chieppa e gli altri venivano destituiti dall’ordine giudiziario, e ove si legge infatti, in motivazione, quale capo di incolpazione: “continuando tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto”.


Preliminarmente, non v’è bisogno sottolinei cosa potesse rappresentare il 1926 per chi ancora anelasse alla libertà e alla democrazia, anno che diede formalmente inizio alla dittatura fascista, con l’emanazione dei provvedimenti per la difesa dello Stato e l’istituzione del nuovo Tribunale speciale per i reati c.d. politici[38].


Vincenzo Chieppa, insieme ad altri magistrati, aveva egualmente il coraggio e la forza di aprire questo nuovo giornale “La giustizia italiana”, e il primo numero usciva già il 12 febbraio 1926, ovvero a meno di un mese dall’ultimo numero de La Magistratura.


Si trattava di un giornale di 4 pagine complessive, che conteneva articoli quasi sempre non sottoscritti da alcuno personalmente, non v’era in prima pagina l’indicazione di un direttore responsabile, ma solo si leggeva in alto a sinistra: “Direzione e amministrazione in Roma, Via Bocca di Leone, 26”; il direttore era indicato solo in 4° pagina, ed era Piero Giubilosi. 


La cadenza del giornale era indicata come settimanale, tuttavia le uscite avvenivano in modo molto elastico, probabilmente per le stesse difficoltà della pubblicazione: al numero del 12 febbraio 1926 ne seguiva un successivo alla data del 20 febbraio, un terzo al 26 febbraio, poi al 13 marzo, 20 marzo, 27 marzo, ecc……..


Nel giornale del 12 febbraio 1926 si legge uno dei pochissimi articoli con firma, sottoscritto dal direttore Pietro Gubitosi, dal titolo assai significativo Dall’alba al tramonto. 


Si legge in esso: “Il 3 gennaio 1907 segna una data memoranda nella storia della Magistratura italiana. Si tenne il primo convegno per stabilire la data del congresso dei magistrati, dal quale sarebbe dovuta sorgere l’Associazione……Pochissimi degli iniziatori del movimento si trovavano ancora a far parte dell’Associazione addì 21 dicembre 1925, quando l’Assemblea ne deliberò lo scioglimento in obbedienza alla legge sui sindacati, di prossima promulgazione. Fra i pochissimi ero io e fui anche presente all’ultima plenaria adunanza. Volli che il ricordo del nascere e del morire dell’Associazione fosse accompagnato dal senso di triste soddisfazione che prova chi, con lo schianto nel cuore, chiude le palpebre del figlio che il fato inesorabilmente gli rapisce. Molti certamente hanno provato eguale dolore; tutti i soci hanno con tristezza visto scomparire la loro Associazione. Ed io sono convinto che gli stessi avversari, coloro stessi che combatterono l’associazione, a conti fatti non abbiano da essere molto contenti dell’opera loro. La fine virile del sodalizio sarà per gli avversari ragione forse di rammarico, ma fa l’orgoglio ed il conforto di quanti gli dedicarono l’opera e l’adesione devota”.


E poi, sempre nel giornale del 12 febbraio 1926, nel titolo di fondo “Capisaldi”, si legge altresì: “Bisogna persuadersi che un paese ha sempre la giustizia che si merita. Non esistono, non sono mai esistiti in questo mondo, uomini di governo i quali abbiano messo in cima alle loro aspirazioni l’indipendenza della giustizia. I più saggi fra essi han sempre pensato e pensano che, siccome la giustizia perfetta è un ideale irrealizzabile, la meno imperfetta fra tutte è quella che si amministra sotto le loro direttive. E gli argomenti dei meno saggi sono anche più spicci”. 


4.3. Non è certo inutile ricordare qui qualcosa di quanto fu scritto in quel giornale nel difficilissimo anno del 1926.


Ricorderei, prima di tutto, il tema della pari dignità dei giudici di ogni ordine e grado, nonché il tema connesso dei rischi che possono darsi nell’immaginare una magistratura strutturata in modo gerarchico.


Si tratta di un tema di particolare attualità, considerato che oggi v’è un disegno di legge di riforma costituzionale che vuole sopprime l’art. 107, 3° comma Cost. nella parte in cui sancisce che: “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.


Nel numero del 20 febbraio 1926 si legge al riguardo: “Quando è in gioco la vita della giustizia, ogni interesse per noi è sacro; non c’è allora parvità di materia e le miserie del Pretore di Roccacannuccia ci toccano quanto le vicende della Corte di Cassazione”.


Il 10 aprile veniva poi pubblicato Scrutini con anticipazione, dedicato proprio alla pari dignità dei giudici, divisi solo per diversità di funzioni.


Si scriveva in quel pezzo: “Vien fatto di domandare se non sia ancor miglior partito, in una prossima riforma, accogliere il principio della equiparazione dei gradi di giudice e consigliere di appello, ma il guardasigilli On. Rocco non pare che sia di questo avviso. Si confida tuttavia che egli persista nell’idea di bandire per sempre qualsiasi forma di arrivismo ed ogni ricordo di giochi ben riusciti o voli saputi spiccare a tempo da favoriti e privilegiati…Quando un sistema di promozione è soppresso perché ha dato cattiva prova, giustizia vuole che ne siano fatte cessare al più presto possibile le conseguenze”. 


E sul tema della dignità e della qualità della giustizia i magistrati de La giustizia italiana, cercavano, trattando altro aspetto di assoluta attualità, il sostegno dell’avvocatura.


Ricordo gli articoli apparsi sui giornali del 20 e del 26 febbraio: Nel giornale del 20 febbraio: “Perché qual è il maggior interesse dell’ordine forense, se non quello di poter contare su giudici pienamente degni del loro posto, su Tribunali veramente liberi nell’assoluzione del loro compito? Sono gli avvocati che hanno il dovere e l’interesse sacrosanto di farsene paladini”. Ed in quello del 26 febbraio: “Quando il costume giudiziario divenisse abietto, e gli uomini chiamati ad amministrare la giustizia fossero avanzi di umanità in liquidazione, non ci sarebbero più leggi ed ordinamenti che potrebbero garantire l’amministrazione della giustizia; e l’ordine forense sarebbe condannato a convertirsi in una Corporazione di mediatori e di trafficanti cui la dottrina giuridica sarebbe di troppo ed il buon costume professionale ragione d’invincibile inferiorità”.


4.4. Altro delicatissimo tema, in un anno quale il 1926, quello dell’indipendenza della magistratura.


Nel numero del 10 maggio si trova un articolo dal titolo “La sola garanzia infallibile”.


Di nuovo si legge: “La magistratura, da quindici anni, va invocando in Italia un efficace sistema di garanzie che faccia dell’indipendenza della magistratura non un principio astratto ma una realtà effettiva…La giustizia perfetta non esiste in alcun paese. Dappertutto può avvenire, in qualche caso, che i governi facciano sentire la propria influenza sulla magistratura. L’essenziale è che fra magistratura e potere esecutivo non si costituisca un vincolo di ordinaria dipendenza. Or non c’è che una garanzia veramente infallibile contro la regola dell’asservimento giudiziario, ed è il controllo della pubblica opinione. Ove questa sonnecchia o è distratta da meno nobili preoccupazioni, l’indipendenza della giustizia può essere sì l’opera eroica di una categoria di cittadini, ma non sarà mai la regola sicura per tutti”.


Sempre sul tema centrale dell’indipendenza della magistratura, nel giornale del 2 settembre si trova un articolo dal chiaro titolo: “L’assurda indipendenza della magistratura”, ovvero si discute dell’opinione dei governanti, i quali ritengono assurda la stessa idea che la magistratura possa essere indipendente dal loro potere.


Si legge: “Dobbiamo dire la verità? A noi non dispiace questo brusco denudamento della vita giudiziaria. No, non saranno proprio gli assertori di una giustizia indipendente a dolersi che questa indipendenza venga proclamata un assurdo e non solo in teoria. Al punto in cui siamo giunti ad ogni menzogna pietosa è preferibile la verità più cruda, comunque possa essere dolorosa. Bisogna talvolta aver toccato il fondo dell’umana bassezza per sentire lo stimolo divino della redenzione”.


4.5. Che dire di un giornale che nel 1926 discute ancora di indipendenza della magistratura e si batte per evitare la gerarchizzazione del corpo giudiziario?


Beh, il giornale non va male, evidentemente nel 1926 v’erano ancora persone interessate alla giustizia; così, sempre nel numero del 10 maggio si legge: “In poco tempo la Giustizia italiana ha avuto la fortuna di raccogliere intorno a sé un piccolo numero di assidui collaboratori d’ogni parte d’Italia, ai quali vanno la nostra gratitudine ed il nostro saluto più cordiale”. E il giornale avvertiva tutti circa il proprio spirito: “avversione per tutte quelle banalità ond’è purtroppo infarcito il giornalismo settimanale: soffietti, adulazioni, pettegolezzi e miserie simili. Per elogiare un uomo od una iniziativa, e tanto meno poi per criticarli, non ci sembrano indispensabili goffe riverenze e dolciastre propiziazioni”.


Nel Giornale del 7 ottobre, l’articolo di fondo è intitolato “Memento!”, cioè: “I lettori possono essere sicuri che i redattori continueranno a non lesinare i loro sacrifici affinché il mondo giudiziario abbia in queste colonne una sua voce sempre più degna. Potranno essere sicuri di una cosa soprattutto: che la nostra voce non sarà mai partigiana né servile e che qui un solo interesse è sacro: quello della giustizia”.


Tra il serio e il faceto, poi, si scriveva anche sul revisionismo storico dell’era fascista appena iniziata.


La giustizia italiana se la prendeva, ad esempio, nel numero del 22 maggio, con il prof. Vincenzo Manzini, che aveva riaperto il processo a Girolamo Savonarola.


L’articolo, con tono scherzoso, diceva che a niente erano valsi a favore del frate i giudizi lusinghieri di Santa Caterina dei Ricci, Nicolò Machiavelli, Sandro Botticelli, San Filippo Neri, Francesco Guicciardini. 


Il prof. Manzini aveva così sentenziato: “Girolamo Savonarola fu un frataccio sedizioso, le sue prediche sproloqui diretti a fini utilitari, tanto vero che, all’atto dell’arresto, gli fu trovata addosso una somma di denaro di cui non seppe giustificare la provenienza”. 


A commento si aggiungeva: “Si salvi chi può signori della storia! Dante Alighieri, Alessandro Manzoni, Napoleone Buonaparte, Benvenuti Cellini, Raffaello Sanzio……..pensate ai casi vostri. Il prof. Manzini è all’opera, il prof. Manzini non scherza”. 


4.6. Ed ancora, nel numero del 21 ottobre, si trovano osservazioni critiche circa l’incidenza della politica sulla giustizia in Germania; forse la Germania già faceva paura, o forse, esponendo i difetti della Germania, si intendeva indirettamente sollevare pari critiche al sistema italiano. 


Si legge in quelle pagine: “E si potrebbero citare esempi su esempi di questa deplorevole jugulazione della giustizia alle esigenze dei partiti, i quali, fra tutti i partiti dei grandi paesi europei, sono forse i più settari, faziosi e violenti. Gli assassini di uomini politici repubblicani sono spesso irreperibili, e comunque i loro giudici sono pieni di clemenza. Non è stata ancora dimenticata la conclusione pietosissima del processo contro gli aggressori di Harden. E sono all’ordine del giorno i rigori della giustizia contro giornalisti e scrittori repubblicani in nome di una legge elasticissima come quella dell’ordine morale da custodire. Un giornalista è stato recentemente condannato a 200 marchi (oro) di multa per offesa a Dio, e la sua colpa si riduceva ad una antica satira sulla concezione che i razzisti si son formata della storia della creazione. Sotto la stessa imputazione sono stati condannati il poeta Zeckmayer, il caricaturista Gross, lo scrittore Pecker, ecc…. La conclusione è chiara. Quando la magistratura si fa milizia di un partito politico, la parola giustizia perde ogni significato nella vita di un paese, qualunque ne sia il grado di ricchezza e di civiltà”.


L’ultimo numero, che chiude l’esperienza de La giustizia italiana, è del 29 ottobre, e in esso non si trova niente di particolare: l’articolo di fondo è dedicato alle riforme giudiziarie della Francia, in Note e notizie si lamenta la vacanza dei posti nell’organico, poi v’è qualcosa sulla legge e il regolamento delle professioni forensi, e poi ancora, direi, nient’altro.


4.7. A fine 1926 il Governo fascista, con il ministro guardasigilli Alfredo Rocco, interveniva di nuovo, e definitivamente, contro questi magistrati, tra i quali, direi in primo piano, sempre figurava il giudice Vincenzo Chieppa.


Faccio riferimento al Regio decreto 16 dicembre 1926, che ritengo interessante riportare qui per intero, con il quale Vincenzo Chieppa ed altri suoi colleghi venivano destituiti dall’ordine giudiziario.


Si legge in tale decreto: “Ritenuto che il Consigliere della Corte di Cassazione Saverio Brigante, il Sostituto Procuratore Generale di Corte di Appello Roberto Cirillo, i giudici Occhiuto Filippo Alfredo e Chieppa Vincenzo ed il Sostituto Procuratore del Re Macaluso Giovanni sono stati i principali e più attivi dirigenti dell’Associazione Generale tra I Magistrati Italiani; Ritenuto che ad opera di essi l’Associazione assunse un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura” dai medesimi redatto e pubblicato; Ritenuto che tale indirizzo sostanzialmente venne mantenuto anche dopo l’avvento del Governo Nazionale, che essi avversarono criticandone astiosamente gli atti, nonché facendo insinuazioni ed affermazioni di pretese ingiustizie e persecuzioni personali tanto da incorrere in reiterate diffide ufficiali; Ritenuto che solo per normale ossequio alla Legge sui sindacati essi deliberarono lo scioglimento dell’Associazione, la soppressione del periodico e la liquidazione della Cooperativa (a suo tempo creata per fornire stabile sede all’Associazione), ma in sostanza mantennero saldi i vincoli associativi mediante atti simulati continuando, tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto, che si ostinò nell’avversione al Governo sino ad incorrere nel novembre scorso, dopo reiterate diffide, nella soppressione ordinata dall’autorità politica; Ritenuto che per le manifestazioni compiute i magistrati suddetti non offrono garanzie di un fedele adempimento nei loro doveri di ufficio e si sono posti in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo; Viste le giustificazioni presentate dagli interessati; Visto l’art. I° della legge 24 dicembre 1925 n. 2300; Sentito il Consiglio dei Ministri; Sulla proposta del Nostro Guardasigilli Ministro Segretario di Stato per la Giustizia e gli Affari di Culto; Abbiamo decretato e decretiamo Chieppa Vincenzo – giudice – ed altri sono dispensati dal servizio, a decorrere dal 31 dicembre 1926, ai sensi dell’art. 1° della Legge 24 dicembre 1925 n. 2300”.


https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3088-la-magistratura-al-tempo-di-giacomo-matteotti-di-giuliano-scarselli

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