martedì 30 maggio 2017

Dal web anno 2007(molto è cambiato..quasi tutto..anzi senza il quasi ) Ma sempre "Si tace e si parla "nella preghiera liturgica

Risultati immagini per foto di un temporale totale
Un'esperienza

Desidero condividere con voi, questa volta, non delle teorie, ma
un'esperienza, un esplorazione, un incontro.
La offro in umiltà a coloro che condividono la mia via: e il peggior
uso che se ne potrebbe fare - visto che parla delll'incontro con
un'altra via - è misurarla con metri di questo è meglio e questo è
peggio.

Ho partecipato ad un'officiatura ortodossa. alla quale ero stato
invitato da un amico pieno d'affetto.
In generale, quando si parla di liturgia ortodossa, ho dentro due
immagini: lo splendore dell'Anastasis a Gerusalemme e - sempre a
Gerusalemme - l'oscura caverna, umida, profonda e densa di sacro, la
chiesa della Dormizione al termine della lunga scalinata verso il
profondo. Ma non avevo idea di quello che poteva essere in Italia.

La mia esperienza inizia con una tempesta di pioggia e di vento, un
nubifragio che giocosamente squassa la città. Vidi aquam. E con una
discesa. Perché anche qui vi sono scale, anche qui si scende nel
buio. La chiesa è in un edificio come tanti, e sopra di essa vi sono
depositati strati di case di uomini. Si suona a un campanello
normale, viene aperta una porta normale: ecco, sono dentro.

Anche questa è una grotta. Le chiese ortodosse ti fanno sentire
quasi fisicamente in un grembo, in un ventre, in un utero - con quel
che di buono e di problematico vi può essere in un utero (perché da
un utero in qualche modo devi poter uscire). Fuori ci sarà anche il
nubifragio: qui però tutto è caldo, le candele illuminano quiete, a
quella luce scintillano vive le icone, le poche persone si sentono a
loro agio, parlano forte e ridono senza problemi. C'è una prima
differenza con le chiese romanocattoliche. Nelle chiese occidentali
si sussurra. Si parla sempre sotto-voce. Ovviamente il valore
esplicito è quello del rispetto. Del timore. Del pudore. Però credo
ci sia anche la parzialmente inconsapevole tendenza a non farsi
sentire da chi abita il Luogo Sacro. Sentire non solo nel senso di
udire. In questa chiesa ortodossa non si sussurra. Si tace, o si
parla. Per lo più si tace (un ragazzino accanto a me, dall'aria
compresa e intensa, manterrà il silenzio ininterrottamente per quasi
due ore): ma quando si parla, si parla. La parola che mi viene in
mente è familiarità. Questa gente ha familiarità con Dio: così
sembra. Una signora del coro non ha alcun timore a spegnere il
proprio telefonino stando dritta in piedi dinanzi alla Grande Porta
spalancata sull'Oltre: lo fa senza tentare di nascondersi, poi si
sposta al suo leggio e canta (benissimo). C'è chi arriva in ritardo
e suona un campanello: si va, del tutto tranquillamente, ad aprire.
Eppure questa familiarità non è mai sciatteria. Guardate, io sento
di essere un detector (e detestatore) sensibilissimo, quasi
infallibile, della sciatteria: potete dunque fidarvi. Qui non c'è
alcuna sciatteria. C'è forse la disinvoltura un po' guascona del
domatore che infila la testa della bocca del leone. Ma, che sia un
leone, lo si sa. Che in un attimo potrebbe staccarti il collo, lo si
comprende bene. Che un giorno o l'altro certamente lo farà, anche.

Una seconda differenza la rilevo nell'uso dei corpi. Non c'è
un'assunzione comunitaria dei gesti. Le posture vengono prese a
seconda di un accordo (in senso musicale) tra la propria condizione
interiore e ciò che di oggettivo sta accadendo: e l'accordo può non
essere uguale per tutti. Il celebrante si muove all'interno dello
spazio secondo geometrie non solenni e probabilmente non previste:
mi ricorda l'atteggiamento di certe massaie di un tempo nelle grandi
cucine. Esprime - mi pare - un prendersi cura delle cose, dei riti,
delle persone, delle parole. Ma un prendersi cura sufficientemente
buono, non eccessivamente identificato nella funzione o nel ruolo.

Ancora. Il senso del vuoto. Non c'è. O c'è, ma raggiunto secondo vie
di pieno. Tento di spiegare: non è facile.
Non c'è (senso del vuoto) rispetto allo spazio. Gli spazi sono tutti
ingombri di cose. Le pareti sono letteralmente cosparse di icone
grandi e piccole. C'è l'idea che moltiplicare le immagini rafforzi
l'esperienza della santità (un po' come quando si dice santo, santo,
santo). Siamo agli antipodi di ogni aniconismo monoteistico. Si
direbbe quasi di essere più vicini al Tibet che all'Islam. Nella
postazione dove sono seduto io la mia testa è collocata a pochi
centimetri da un santo coronato dal volto limpido e sereno, e appena
sotto si apre la ferita oscura di una natività nel sepolcro. Sì,
sentirsi circondati da immagini è un'esperienza interessante e s-
concertante.
Il vuoto non c'è neppure rispetto alle parole. Le parole, recitate
rapidamente in italiano e in greco, formano una specie di risacca
marina, arrivano a ondate sulla spiaggia della consapevolezza. Non è
richiesto di seguirle analiticamente: no. Sarebbe impossibile. Ogni
tanto un'ondata lascia sulla spiaggia qualche conchiglia
risplendente, qualche stella marina. Io mi sono portato a casa
alcune conchiglie, e le ho ancora qui davanti a me. Sono le parole:
luogo di riposo, luogo erboso, luogo di refrigerio. E' il destino
dei defunti, di tutti, quello che spero essere il mio. Vengono
ripetute continuamente, teneramente, struggentemente. Portalo lì, in
un luogo di ristoro, un luogo erboso, un luogo di refrigerio...
Alcune orazioni ambrosiane (e anche romane) sono piccoli capolavori
di concisione. Potrebbero essere scritte nella pietra. Dense come
stelle di neutroni e fuori il vuoto cosmico. Qui il vuoto viene
ricercato estenuando forme e suoni, portandoli al loro limite
estremo, fino a vederli finalmente cedere nell'apofasi.

A un certo punto capita davvero quel che io non ho mai visto.
Nell'aria già satura di incenso (le incensazioni sono continue e
tintinnanti), mentre il piccolo coro canta dolcemente e
sommessamente Kyrie Eleison, il celebrante comincia a leggere (no: a
gridare) letteralmente centinaia di nomi di morti. Li chiama: sì, li
chiama. Anna!, Anna!, Anna! Antonio!, Antonio vescovo!, Antonio!, e
così via. Centinaia. Un tempo lunghissimo. La stanza già piccola si
riempie di morti, di storie. La morte li accomuna: un Christos può
stare accanto a un Ciccio: ed è un unico grido. L'immagine che ho
dentro è quella di un frullare impazzito di ali o di api dentro un
bicchiere: ne posso udire quasi fisicamente il ronzio. Ora è
veramente tutto pieno, la densità umana è forse non tollerabile. Sì,
perché una cosa sono gli angeli (ce ne sta come è noto un intero
girotondo sulla punta di uno spillo, gli angeli sono presenze
agilissime, danzanti, lievi, sono riflessi, bagliori), e una cosa
sono le anime umane: che saranno anche spirituali ma, quando
chiamate, ingombrano, riempiono, premono fisicamente su cuori e su
memorie, accendono emozioni, condensano lacrime.

La liturgia si conclude. Resta da congedare e raccomandare a Dio un
parrocchiano in partenza per l'estero, che viene teneramente avvolto
sotto una stola. Rimane da benedire un'icona, in cui è raffigurata
la Santa Vergine si erge immensa sopra la santa montagna dell'Athos.

Usciamo: è buio ma non piove più. C'è ancora un dono per me.
L'ascolto di un racconto pieno di tenerezza, di mancanza, di
speranza, che riguarda una persona importante per Dio e per quella
gente, una persona che non è più tra noi, se non nella memoria,
nell'attesa di un ri-vederlo, nell'invocazione. Una persona presente
per assenza: ma presentissima. Mi viene in mente una frase di Thomas
Mann che, quando parla della promessa di Dio ad Abramo, dice che
essa - che viene sempre tradotta tu sarai una benedizione, potrebbe
essere più adeguatamente resa con tu sarai un destino. Mi sembra che
per coloro me ne parlano, questa persona sia stata un destino.

Grazie, Barsanufio

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